Ecco la storia di come ho realizzato che viaggiare lentamente è il miglior stile di viaggio. Viaggiare per conoscere un Paese nel profondo e non solo per spuntare una serie di luoghi da una lista!

Ero tornata da qualche giorno dal Myanmar e stavo ancora cercando di capire che cosa mi fossi portata a casa da quel viaggio.
Era il primo viaggio “serio” della mia vita, il primo fuori dall’Europa, il primo in Asia.
Nella mia testa avevo quella (falsa) convinzione che un viaggio cosi mi avrebbe aperto gli occhi, se non sul mondo almeno su me stessa. Come se due settimane avessero potuto rivelarmi il senso della vita.
Volevo tornare a casa e raccontare a tutti come vivesse la gente in Myanmar, di cosa avesse voluto dire per loro vivere sotto una dittatura, avrei voluto portare la loro opinione in merito alla guerra fra Musulmani e Buddisti, avendo la possibilità di vedere tutto questo da vicino. Avrei voluto capire come vivono i monaci, e il perchè di tutte quelle pagode (quante gliene servono per pregare??). E molto altro.
Volevo conoscere un’intera nazione in due settimane.
Avrei voluto poter dire: “Alla luce di tutto questo la mia visione della vita e del mondo è totalmente cambiata”. La verità è che non ci avevo capito niente e la cosa mi creava frustrazione.
Per molto tempo ho voluto viaggiare solo in terre lontane pensando che più quei posti fossero stati diversi da quello a cui ero abituata, maggiore sarebbe stata la meraviglia che avrei provato una volta giunta a destinazione. Passavo le ferie che mi erano state concesse saltando da un posto all’altro come una cavalletta impazzita, cercando di vedere più cose possibili in quel breve lasso di tempo. Spendevo una buona parte del mio tempo a fare ricerche su Google, prenotare, confrontare prezzi, per cercare di ricavare il massimo da quell’esperienza. Senza dimenticare di mettere la spunta, giorno dopo giorno, ai “must do” della destinazione, quelle cose che devi per forza fare e vedere per poter tornare a casa dicendo “Io ci sono stato!” E nel frattempo cercavo anche di immergermi nella cultura del luogo, di catturarne l’anima, capire come vive e pensa la gente, e se possibile scoprire uno di quei posti speciali, non so, una spiaggia nascosta o un villaggio dove nessuno va mai ma che dovrebbe racchiudere in se la vera essenza del posto perchè non contaminato dal turismo di massa. Nelle guide Lonely Planet li trovate in piccoli riquadri che portano la dicitura “destinazioni insolite”. E siccome tutti comprano la Lonely Planet smettono di essere insolite molto presto.
Questo è stato il modo in cui ho viaggiato in Myanmar per quelle due settimane, l’unico che conoscevo.
Sull’aereo di ritorno mi sono trovata a riflettere sull’esperienza appena vissuta, e ho capito che non avrei mai più potuto viaggiare in quel modo.
Dal mio punto di vista era un assurdo spreco di soldi e di tempo per ottenere poco o niente di quello avrei voluto.
Perchè amo cosi tanto viaggiare?
Me lo sono chiesta più volte.
Quello che mi spinge è la voglia di crescere come persona, l’accumulare esperienze di vita, insegnamenti. Il contatto con la gente, la curiosità di capire culture diverse, i diversi modi di vivere. Scoprire com’è fatto il mondo in cui viviamo, che fondamentalmente è la nostra casa.
Voglio che l’atto di viaggiare sia guidato dall’istinto, voglio poter seguire le mie sensazioni. Non voglio dover abbandonare un luogo che amo solo perchè ho programmato tutto per andare in un altro posto. E non voglio neppure obbligarmi a stare dove non voglio stare se quello che vedo non mi piace.
Viaggiare deve poter essere libertà.
Per fare tutto questo ci vuole tempo, forse non basterebbe una vita.
La ricerca di quella famosa “rivelazione spirituale” che spesso ritroviamo nella retorica del viaggio, la stessa che cercavo io in Myanmar, viene spesso scambiata per un luogo comune, una balla che si racconta agli amici una volta tornati per sentirsi in qualche modo superiori. Quante volte ho sentito dire “Per trovare te stesso non c’è bisogno che vai dall’altra parte del mondo!” e in molti casi è vero. È invece innegabile che il viaggio lento, quello a lungo termine, ci porta inevitabilmente a conoscere noi stessi in un modo più profondo, che lo si voglia o no.
Lo scittore Rolf Potts, autore di “Vagabonding – L’arte di girare il mondo” nel suo libro spiega molto bene come questo avviene:
Come posso sperare di mettere alla prova me stessa quando sono consapevole che nel giro di qualche giorno sarò di nuovo nel mondo che conosco e che mi è familiare?
Rimanendo nello stesso luogo per tanto tempo si diventa parte integrante di quel posto, e per farlo avremo dovuto adattarci, superare le nostre paure, fare uno sforzo, sentirci soli e a disagio per poi finalmente trovare la nostra dimensione in quell’ambiente. E tutto questo ci avrà fatto crescere, imparare, ci avrà resi più forti, e avremo compreso qualcosa in più del luogo che ci ha ospitati ed accolti. E di noi stessi ovviamente.
È esattamente questo che io cerco nel viaggio. E la lentezza quindi diventa una necessità.
Con questo non voglio dire che disprezzo il modo classico di viaggiare. Ognuno lo fa per motivi diversi, e non tutti hanno bisogno di ricavare tutto questo da un viaggio. Molti lo fanno per puro svago, per divertimento, per staccare la spina dalle loro preoccupazioni e da loro stessi, e magari hanno altri modi di conoscersi, di trovare le risposte alle loro domande.
In ogni caso, in qualunque modo viaggiate, non abbiate fretta.
Gustatevi i momenti che state vivendo senza pensare troppo a cosa verrà dopo e se quello che state facendo o vedendo è come ve lo aspettavate oppure no. Prendete tutto quello che viene, anche gli imprevisti spiacevoli, come parte della vostra esperienza.
Viaggiare non è una maratona, non è mettere la spunta su una lista di posti, e nemmeno collezionare il maggior numero di Lonely Planet possibile per poterle mettere in bella mostra in salotto.
Il viaggio è prima di tutto un‘esperienza personale, privata. Anche se avete postato un milione di foto su Instagram quello che vi resterà dentro è quello che conta di più. Prendetevene cura.